“Indagini” di Stefano Nazzi ha riscritto le regole del podcast true crime all’italiana. E lo amiamo proprio per questo

In un’epoca in cui siamo abituati ad avere tutto, subito e in abbondanza diventare l’agognato oggetto di un’attesa che si ripete, puntuale, non è affatto facile. E l’impresa è ancora più ardua se parliamo di podcast, mercato dove l’offerta supera di gran lunga la domanda. Stefano Nazzi e Il Post però ci sono riusciti. Hanno creato un podcast, Indagini (sulle app free), che nel giro di pochi mesi si è trasformato in una piacevole ossessione per migliaia di ascoltatori. E lo hanno fatto mettendo in discussione la maggior parte delle regole ripetute dai guru del settore: quelle che dicono che, per creare una relazione con gli ascoltatori, è bene pubblicare ogni giorno o almeno ogni settimana; quelle che raccomandano di puntare sulle emozioni; quelle che suggeriscono che per fare un buon podcast è necessario averne ascoltati molti.

Dallo scorso aprile l’avvento del primo giorno di ogni mese, ribattezzato dagli appassionati #IndaginiDay, è preceduto e seguito da decine di post sui social (tra cui molti meme). Svariate persone attendono e ascoltano ogni puntata come un evento sacro, gli amici fan chattano per provare a indovinare quale sarà il nuovo caso e poi per commentarlo. La maggior parte degli ascoltatori e delle ascoltatrici è in grado di recitare la sigla a memoria: «Io mi chiamo Stefano Nazzi, faccio il giornalista da tanti anni. E nel corso della mia carriera mi sono occupato di tante storie come questa, quelle che nel tempo vi sono diventate famigliari e altre che potreste non aver mai sentito nominare».

Sono storie di cronaca nera, cronaca giudiziaria. Storie che per lo più conosciamo bene o benissimo. Magari anche perché le abbiamo sentite raccontare in altri podcast true crime, il secondo genere più amato in Italia su Spotify (dopo News). Eppure raccontate da Nazzi diventano storie diverse. Perché l’approccio del giornalista, in effetti, è diverso. In che maniera lo spiega lui stesso nella seconda parte della sigla, dove dice che il suo obiettivo è «mostrare non tanto il fatto di cronaca in sé, il delitto in sé, bensì tutto quello che è successo dopo. Il modo in cui si è cercato di ricostruire la verità, le indagini giudiziarie e i processi, con le loro iniziative, le loro intuizioni e i loro errori. Il modo in cui le indagini hanno influenzato la reazione dei media e della società, e il modo in cui i media e la società hanno influenzato le indagini».

IL GIORNALISTA DIETRO AL PODCAST

Fu soprattutto l’omicidio di Meredith Kercher, nel 2007, a mettere in testa a Nazzi che la narrazione del crimine da parte dei media spesso non funzionava: «Andai a Perugia e mi resi conto che la storia come veniva raccontata non era la storia come la vedevo io leggendo le carte, parlando con le persone. Sui giornali Raffaele Sollecito e Amanda Knox venivano descritti già come gli assassini, anche se elementi a loro carico non c’erano. I media trattavano il caso in modo superficiale, nessuno approfondiva veramente. Si seguiva un’ondata, si raccontava quello che la gente voleva sentirsi dire». Per Nazzi, invece, fare il giornalista di cronaca è un’altra cosa: «Racconto i fatti così come sono, lasciando da parte gli aspetti emotivi, senza fornire interpretazioni e senza aggiungere aggettivi inutili. Trovo insopportabili formule come l’“orribile omicidio”: un omicidio è sempre orribile. Queste storie sono terribili ed emotivamente coinvolgenti di per sé, già raccontandole in maniera asettica danno idea del dolore e dell’assurdità. È un po’ come quando si fanno le indagini sulla scena del crimine: ovvio che ci sono le emozioni, ma tutto dev’essere studiato in maniera fredda. Il mio modello assoluto è A sangue freddo di Truman Capote».

 
 
 
 
 
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Nazzi, nato 61 anni fa a Roma e cresciuto a Milano, capisce di voler fare il giornalista quando frequenta il liceo classico Cesare Beccaria: «La cosa che mi piaceva di più guardare in tv era il telegiornale». Figlio di un’insegnante e di un dipendente dell’ufficio personale dell’Atm, è nipote d’arte: entrambi i nonni erano giornalisti. La sua carriera comincia subito dopo la maturità, grazie a una conoscenza a Milano Finanza. Poi entra in Mondadori: scrive di turismo, lavora in un giornale maschile, quindi inizia a occuparsi dell’online. Nel 2002 passa ad Hachette Rusconi per fare il vice direttore del magazine Donna. E dopo tre anni va come caporedattore a Gente, dove lavorava fino a un anno e mezzo fa, quando è migrato a Il Post (per cui già curava un blog sulla cronaca nera).

Ma è a Gente che inizia a seguire la cronaca. E in quegli stessi anni scrive anche, per Laterza, un saggio su alcuni casi di cronaca nera del nord Italia intitolato Kronaka, come un altro suo blog. «La cronaca mi ha sempre interessato, anche se spesso viene trattata con snobismo, come se fosse una forma di giornalismo minore. Raccontare fatti di cronaca significa raccontare come va il Paese in quel determinato periodo. Il crimine rispecchia l’evoluzione della società», commenta. «Il primo caso di cui ho ricordo è quello del primo sequestro di un bambino in Italia, Ermanno Lavorini, a Livorno. Se ne parlò moltissimo. Allora ero un bambino anche io. E poi mi colpì il delitto del catamarano (avvenuto nel 1988, ndr)».

LA NASCITA E LA CREAZIONE DI INDAGINI

Per inaugurare Indagini, lo scorso aprile, Nazzi ha invece scelto il delitto di Garlasco, «un caso in cui a livello di indagini sono stati fatti errori mastodontici, il primo in cui le indagini scientifiche hanno avuto un ruolo determinante». E poi è toccato, tra gli altri, all’omicidio di Elisa Claps e al caso delle Bestie di Satana («Una delle storie che mi ha toccato di più: nessuno riesce a capire come sia potuto accadere, e la figura del padre che per anni cerca di capire che fine avesse fatto il figlio mi ha colpito molto»), agli attentati dell’Unabomber italiano e al delitto di Cogne. «Alterno un caso molto famoso a casi meno famosi. E tratto solo casi italiani, avvenuti non più in là degli anni ’80, che abbiano avuto condanne definitive, in cui le indagini si prestino a essere raccontate – indagini in cui ci sono state evoluzioni che hanno portato a determinate soluzioni», spiega il giornalista. A dare un’idea chiara del taglio del racconto di Nazzi è anche il titolo di ogni puntata, formato soltanto dal luogo e dall’anno in cui è avvenuto il delitto narrato: «Volevamo limitarci ai dati di cronaca, evitando titoli carichi di significato tipo “la strage di Erba”. Inoltre il contesto geografico è spesso fondamentale, come nel caso di Avetrana o della provincia di Milano e Varese per le Bestie di Satana».

 
 
 
 
 
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Indagini, per cui ancora non è stata decisa una stagionalità, è nato grazie a una fortunata congiuntura di idee. Francesco Costa stava facendo scouting per potenziare l’offerta di podcast de Il Post, di cui è il vicedirettore. E questa ricerca è partita dai redattori e dai collaboratori del giornale online, come Stefano Nazzi. «Costa aveva in mente di fare un podcast di cronaca, e io ne ho proposto uno», racconta Nazzi, che pure di podcast non ne ascolta molti («Ho ascoltato qualcosa di [Carlo] Lucarelli, La città dei vivi di Nicola Lagioia e poco altro»). «Volevamo fare un podcast true crime, e Nazzi con le sue competenze era la persona giusta», conferma Costa. «Ovviamente sapevamo dell’interesse per questo genere, ma volevamo fare qualcosa di diverso dagli altri podcast true crime». Il format è arrivato per tentativi. «Abbiamo cominciato scrivendo 30 mila battute per storia (poi le abbiamo ridotte). Due puntate per ogni caso, un caso al mese – volevamo capire se avrebbe funzionato, ma comunque un podcast del genere richiede tempo», continua Nazzi. «Non pensavo che ci avrei messo io la voce. All’inizio mi mangiavo le ultime sillabe delle parole, parlavo a voce più bassa mano a mano che andavo avanti con le frasi. Riascoltarsi è fondamentale, anche per accorgersi di eventuali errori. Con la scrittura invece è stato più facile. La principale differenza tra quella per la carta e quella per i podcast è che la scrittura per i podcast è più colloquiale. E per fare capire alcune cose si può cambiare il tono».

La creazione di ogni puntata parte dalla lettura delle sentenze e di tutto ciò che è stato scritto a proposito del caso. Poi c’è da fare la scaletta. Questa, spiega Nazzi, è la fase più lunga. Quindi si mette alla ricerca di video già usciti per prendere brevi spezzoni di audio (di cui cita sempre la fonte). E intervista persone interessanti per ricostruire la storia. Infine scrive e contemporaneamente inserisce gli inserti audio dove serve.  Per i casi che segue, aggiunge Nazzi, non ha alcun tipo di ossessione. «Anche se certo, mi ci immergo, mi prendono. M’interessa molto capire cosa succede a queste persone dopo, come diventano: alcune in carcere peggiorano, altre cambiano completamente», spiega. Domando cosa gli abbiano lasciato tutti questi anni da cronista di nera: «Ho capito che anche persone di cui non lo diresti mai possono commettere atti inimmaginabili. E ho capito che nessuno nasce cattivo, sono le circostanze a fare la differenza». E poi gli chiedo anche che consiglio darebbe a chi volesse occuparsi di cronaca nera, e qual é secondo lui l’errore più grosso che si può commettere: «L’errore più grosso è seguire una tesi precostituita e cercare di propinare questa tesi ai lettori o agli ascoltatori. Il consiglio è provare a capire quali sono i meccanismi delle indagini, anche gli aspetti più noiosi, senza rimanere mai superficiali».

 
 
 
 
 
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I MOTIVI DEL SUCCESSO

Il metodo Nazzi funziona al punto che – come scrivevo prima – intorno a Indagini è nata una community di ascoltatori entusiasti (in base ai dati Spotify, riferisce Costa, per lo più sono millennial, come del resto la maggior parte degli ascoltatori di podcast in generale, con un 10% tra i 45 e i 59 anni e un 5% tra i 18 e i 22 – ma c’è da tenere conto che circa la metà degli ascoltatori utilizza l’app de Il Post, che NON raccoglie i dati sull’età). «Per me il rapporto con il pubblico è una cosa nuova, gratificante», dice Nazzi. «Alcuni ascoltatori mi scrivono per suggerirmi di occuparmi di determinate storie. A volte qualcuno mi dice che non ha capito bene qualcosa. Per me è molto utile, mi serve per rendermi conto se ho dato per scontate cose che avrei dovuto spiegare meglio». Nazzi stesso si è interrogato sui motivi del calore della community di Indagini e sul successo del podcast. «Forse è proprio perché cerco di lasciare fuori la parte emotiva, perché non do mai nulla per certo e per scontato», ipotizza. «Un ragionevole dubbio alla fine c’è sempre, a meno che il colpevole non venga beccato in flagrante. Non è mai tutto bianco o tutto nero, ci sono sempre parti di grigio. E io queste parti le racconto».

Francesco Costa sintetizza lo spirito dietro a Indagini con l’espressione «ambizione giornalistica». «È vero, il true crime è un genere di intrattenimento. Noi però abbiamo cercato di fare la cosa meno d’intrattenimento e più giornalistica possibile. E la gente si è appassionata al gup di Parma, alla differenza tra il dolo eventuale e la colpa cosciente, all’incidente probatorio… A tutte le spiegazioni ultra tecniche che Nazzi infila nel podcast e che non si sentono né a Chi l’ha visto né a Storie maledette né in moltissimi altri podcast true crime», commenta il vicedirettore de Il Post. «In Indagini non c’è una raccolta di informazioni a strascico su casi di cronaca avvenuti in Nuova Zelanda o in Spagna negli anni ’40, costruite e messe insieme in modo da fare paura. C’è uno che si studia le carte processuali e che intervista gli avvocati di tutte le parti e li fa parlare dentro il podcast. L’idea era assecondare il nerdismo del genere true crime anziché puntare su tutta questa parte, che va fortissimo, di emotività e racconto ansiogeno. Hai una persona che ti parla in un modo normale, senza tutta quella teatralità da film horror. Lo stesso vale per il sound design (opera di Stefano Tumiati, ndr). All’inizio era molto classico. Poi abbiamo cercato di evitare sempre più la musica ansiogena o comunque di ridurla il più possibile, e mettere invece delle cose che fossero un po’ più originali e che avessero un po’ più di gusto anche in questo senso».

Secondo Costa ci sono almeno altre due ragioni che spiegano l’amore per Indagini, il rituale dell’attesa del primo del mese. Una è proprio la scelta della frequenza di pubblicazione. «L’uscita una volta al mese intanto dà l’idea del lavoro che serve per fare Indagini», dice il giornalista. «Ma soprattutto la cadenza mensile permette di far diventare l’uscita del podcast un piccolo evento tutte le volte. Si crea l’hype. Sì, pensavamo che una cadenza simile avrebbe potuto funzionare, ma non avevamo idea che potesse funzionare poi così bene». L’altra ragione ha a che fare con la figura stessa di Stefano Nazzi: «Il fatto che Nazzi sia quello che meno ti aspetti (cioè un giornalista di una certa età, di grande serietà, molto timido) rende interessante e divertente farci sopra i meme. È una persona tanto competente, precisa e scrupolosa quanto umile, che non ha molta voglia di apparire. Questo forse si nota anche nel suo approccio alle cose. E quindi probabilmente per chi segue Indagini diventa simpatico essere un groupie o una groupie di Nazzi, perché è uno che – evidentemente – non ha quel tipo di ego online». Nazzi, riassume Costa, è una «star improbabile». E per questo lo amiamo ancora di più.

 

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