Lunedì 4 dicembre Daniel Ek ha annunciato che entro la fine dell’anno Spotify taglierà altri 1500 posti di lavoro, pari al 17% del personale.
Si tratta della terza ondata di licenziamenti del 2023, la più impattante. A gennaio Spotify aveva licenziato 590 persone, a giugno altre 200 persone (in questo caso tutte nella divisione podcast).
In totale l’azienda nel 2023 avrà quindi licenziato quasi 2300 persone.
Per quanto riguarda questa terza tornata di licenziamenti, tra le persone licenziate ci sono vari dipendenti di Megaphone e Spotify Ad Analytics, il direttore dell’integrità pubblicitaria della piattaforma Dave Byrne e il responsabile del maeketing Taj Alavi.
In un secondo momento è emerso che anche il direttore finanzario Paul Vogel lascerà l’azienda, a fine marzo 2024. Spotify è alla ricerca di qualcuno che lo sostituisca.
Ek ha spiegato la decisione così:
Negli ultimi due anni Spotify ha intrapreso un’evoluzione per allineare le spese alle aspettative del mercato, finanziando al contempo le significative opportunità di crescita che continuiamo a individuare. Ho parlato a lungo con Paul della necessità di bilanciare attentamente questi due obiettivi. Siamo giunti alla conclusione che Spotify sta entrando in una nuova fase e ha bisogno di un CFO con un diverso mix di esperienze. Di conseguenza abbiamo deciso di separarci, ma apprezzo molto la mano ferma di Paul nel sostenere l’espansione della nostra attività durante una pandemia globale e un’incertezza economica senza precedenti.
In generale, l’amministratore delegato di Spotify ha motivato i licenziamenti con la necessità di tagliare i costi «per perseguire gli obiettivi finanziari a fronte di un forte rallentamento della crescita economica e dell’aumento del costo dei capitale».
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L’annuncio degli ennesimi licenziamenti ha sorpreso molti soprattutto perché i conti di Spotify nel terzo trimestre 2023 erano risultati in attivo di 34 milioni di dollari, dopo oltre un anno in negativo.
Nel prossimo trimestre (il quarto del 2023) i conti di Spotify torneranno in rosso proprio a causa dei costi di licenziamento, che saranno compresi tra i 100 e i 116 milioni di dollari.
Le azioni di Spotify sono salite di oltre il 30% negli ultimi sei mesi e di oltre il 135% su base annua, sebbene il giorno dell’annuncio dei tagli il valore in Borsa della società sia invece sceso del 7,5%.
(Peraltro, Paul Vogel il giorno in cui sono stati annunciati i licenziamenti ha venduto azioni di Spotify per un valore di oltre 9,3 milioni di dollari; a settembre aveva già venduto azioni per 3,3 milioni di dollari.
Ma a vendere azioni di Spotify sono stati anche anche Eve Konstan, consigliera generale di Spotify, e Shishir Mehrotra, membro del consiglio di amministrazione, rispettivamente per 1,1 milioni di dollari e 0,5 milioni.
Le vendite potrebbero essere state decise e automatizzate in precedenza.)
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Qualcuno si è fatto l’idea è che i tagli rispondono anche alla volontà di Spotify di diventare più competitiva nel campo dell’intelligenza artificiale, su cui sta investendo parecchio. «Dopo tre serie di licenziamenti in un anno […], gli investimenti di Spotify nell’intelligenza artificiale per incrementare i margini delle sue divisioni podcasting e audiobook appaiono come una revisione completa della strategia che Wall Street sembra convinta possa funzionare», ha scritto un giornalista della Cnn.
L’azienda deve recuperare l’oltre miliardo di dollari che ha speso nel settore dei podcast: gran parte della cifra è stata destinata ad accordi con celebrità per la realizzazione di podcast che non si sono mai concretizzati o che non hanno funzionato come sperato e all’acquisizione di studi di podcast che poi ha chiuso.
(Nelle intenzioni di Spotify i podcast, così come gli audiolibri, avrebbero dovuto rappresentare un business per colmare le perdite dovute alla musica. Spotify mirava ad attrarre abbonati attraverso i propri podcast in esclusiva, ma non ha mai fatto granché affinché quegli stessi podcast potessero diventare un elemento per generare la sottoscrizione di abbonamenti a pagamento.)
La fine di Heavyweight e Stolen?
Nei giorni scorsi si è parlato molto anche della decisione di Spotify di cessare la produzione di due podcast molto popolari: Heavyweight (tra i migliori podcast del 2023 secondo il New York Times) e Stolen (che ha vinto un Peabody Award e il premio Pulitzer per l’audio). Dopo la fine delle stagioni in corso i due podcast potranno venire acquistati da altri editori.
In molti hanno commentato questa scelta con durezza. Lydia Polgreen, ex responsabile dei contenuti di Gimlet Media, ha pubblicato su X vari post al riguardo, che ha poi eliminato, in cui tra le altre cose diceva, rivolgendosi a Spotify: «Se non riuscite a farcela con questi podcast incredibili, siete semplicemente pessimi nel podcasting».
Nel corso dell’ultimo anno Spotify ha cancellato una ventina di serie di Gimlet e di Parcast. I due studi di produzione, che Spotify ha comprato per decine di milioni di dollari, oggi rappresentano un’unica entità nota come Spotify Studios.
Adam Shepherd su PodPod ha espresso un giudizio invece più “comprensivo” nei confronti di Spotify rispetto alla scelta di cancellare Heavyweight.
Se la nuova strategia di Spotify per i podcast è quella di dare priorità agli introiti pubblicitari, allora i podcast talk come Call Her Daddy sono infinitamente più facili da produrre con meno spese generali e non devono essere stagionali per adattarsi ai lunghi tempi di produzione. È inoltre degno di nota il fatto che, nella classifica di fine anno stilata da Spotify, i cinque podcast più popolari a livello globale erano tutti podcast talk, anziché il tipo di podcast investigativi alla Heavyweight.
Sono certo che alcuni di coloro che stanno leggendo questo articolo si sentiranno inorriditi all’idea che Spotify sostituisca podcast riflessivi e creativi come Heavyweight con altri podcast talk – dopotutto, il podcasting è una forma d’arte, e Heavyweight ne è uno dei migliori esempi. Sono d’accordo, ma Spotify non ha l’obbligo di finanziare podcast esclusivamente in base ai loro meriti culturali o creativi, se non hanno un riscontro commerciale.
Anzi, aspettarsi che un’entità aziendale lo faccia significa ignorare la sua fondamentale ragion d’essere. Secondo la mia esperienza, la maggior parte delle aziende non apprezza intrinsecamente le opere creative in quanto tali, ma solo per le entrate che generano. Lo vediamo spesso in mezzi come i film, i libri e i giochi.
Ma quindi cosa sta succedendo?
Innanzitutto, preciso che qui parliamo soprattutto di Stati Uniti, e nello specifico di Spotify.
La situazione di Spotify è di sicuro frutto della (cinica) presa di coscienza da parte dell’azienda dei propri errori strategici. Ma Spotify non è stata l’unica realtà a fare errori strategici. Le conseguenze di questi errori, insieme a un contesto macroeconomico complicato, hanno innescato una reazione a catena che ha creato allarmismo e portato a tagli generalizzati (che hanno colpito anche uno dei più antichi podcast network statunitensi, TWiT).
Quella attuale è molto probabilmente una fase di assestamento dopo un periodo di eccesso di produzioni e investimenti.
Tre pezzi da leggere per approfondire
- The Casualties of the Podcasting Bloodbath, in cui si racconta chi sta pagando le conseguenze delle ingenuità altrui,
- Everything you know about the podcast industry is a lie, sulle lezioni del cambio di rotta di Spotify,
- Why I left…, dove l’ex responsabile dei contenuti e della produzione di Pushkin Industries spiega perché ha lasciato l’azienda.
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