Nella giungla dei videopodcast

La maggior parte dei puristi dei podcast ogni volta che si parla di videopodcast (& YouTube) storce il naso. Paragonare i videopodcast ai podcast?! Sacrilegio!

Questo sdegno è il corollario di una diatriba ormai annosa su che cosa siano i videopodcast. Ed è lo sdegno di chi non accetta che i videopodcast siano accostati ai podcast, come se ne fossero un qualche sottogenere.

I videopodcast, in effetti, sono un’altra cosa rispetto ai podcast. Ma sono un’altra cosa anche rispetto alla maggior parte delle tipologie di video pensati per YouTube & Co. (tutorial, recensioni, reaction, Q&A, vlog eccetera). Questo nonostante i videopodcast siano nati proprio su YouTube, ormai quasi 15 anni fa.

Breve parentesi storica.

Nei loro primi dieci anni di vita (dal 2003 al 2013) i podcast erano quasi esclusivamente contenuti conversazionali, e a realizzarli erano per lo più speaker radiofonici, nerd di vario tipo e stand-up comedian: persone che avevano trovato nel feed Rss una tecnologia per facilitare la distribuzione su vasta scala dei contenuti parlati. E la stessa tipologia di creatori già allora aveva trovato un palcoscenico ideale anche su YouTube, la cui età dell’oro è iniziata suppergiù nel 2010. The Joe Rogan Experience, tra i videopodcast più popolari al mondo, è sbarcato su YouTube nel 2013.

L’intervista del 2018 a Elon Musk, che si è pure fatto una canna durante la registrazione, è stata la puntata di JRE più visualizzazioni di sempre: 68 milioni. Ma la puntata di un videopodcast su YouTube con più view in assoluto è l’intervista ad Yasser Al-Hazimi, esperto e formatore di skill comunicative e relazionali, nel podcast saudita Fnjan: dal 2022 a oggi ha ottenuto oltre 100 milioni di view

Essere una brava podcaster, infatti, non garantisce di essere anche una brava videopodcaster. Allo stesso modo, essere un ottimo youtuber non dà la garanzia di saper gestire in modo efficace anche un videopodcast.

Il caso di Muschio Selvaggio

Luis Sal, per esempio, come youtuber è un fuoriclasse. I suoi video sono piccole, geniali opere d’arte del nonsense (l’ultimo, I’ve miniaturized all my material possessions, è anche incredibilmente rilassante). Come conduttore di podcast, invece, Luis Sal è decisamente più scarso.

Le nuove puntate di Muschio Selvaggio, che Luis ha ripreso in mano con il fratello Martin dopo il litigio con Fedez, lo dimostrano in modo piuttosto chiaro. Il 150esimo episodio, con Martin nei panni di Che Guevara intervistato da Luis e Gianluca Gazzoli (l’host di Passa dal BSMT), credo sia il più noioso della storia di MS.

Un frame della nuova sigla di “Muschio Selvaggio”, che invece adoro

Perché questa nuova versione di MS non funziona? (Non che la precedente, con Fedez e Mr Marra alla conduzione, fosse chissà che cosa, ma almeno aveva un po’ di brio in più.)

Le regole non scritte

I videopodcast hanno alcune caratteristiche ricorrenti, e poche regole.

  1. Sono in genere monologhi, conversazioni o interviste. Comunque, contenuti in cui si chiacchiera. Tanto. E infatti per lo più durano un bel po’, dalla mezz’ora in su. Conta il contenuto, ossia ciò che si dice, e conta come lo si dice. Il discorso o la conversazione devono avere ritmo, devono intrattenere. E, nel caso di conversazioni e interviste, tutte le persone presenti devono in qualche modo emergere, ciascuna con la propria personalità.
  2. Sono contenuti che si possono solo ascoltare oppure ascoltare e vedere allo stesso tempo. Audio e video devono essere entrambi di qualità alta. Inoltre, eventuali interventi di editing audio non devono impattare sulla resa del video (quindi occhio con i tagli), e ciò che si vede dev’essere comprensibile anche ascoltando e basta (il che significa per esempio chenon ha senso mostrare l’immagine di un grafico senza raccontarlo).

Ecco, Muschio Selvaggio in questa nuova coconduzione di Luis e Martin pecca di moscezza. Luis è praticamente invisibile. Martin fa meglio, ma spesso a condurre davvero sono gli ospiti stessi (interessanti, anche se in qualche caso male assortiti). I pochi tentivi di creatività non funzionano, perché rispondono a logiche proprie di altre tipologie di video su YouTube (la già citata intervista a Martin-Che è un puro esercizio di stile fine a se stesso). Inoltre, non di rado in video vengono mostrati materiali che dal punto di vista solo audio risultano monchi (mi riferisco per esempio alla puntata Apocalisse nucleare con Geopop e Baby K).

Il boom dei videopodcast

Al di là dell’evoluzione di Muschio Selvaggio, a Fedez e Luis Sal va riconosciuto che hanno avuto la lungimiranza di portare in Italia una tipologia di contenuto che, al momento del lancio del “podcast” a inizio 2020, da noi era praticamente ignorata. Le loro principali fonti di ispirazione sono stati i videopodcast made in USA Impaulsive di Logan Paul e The Joe Rogan Experience.

In generale, negli ultimi anni i videopodcast sono cresciuti moltissimo in tutto il mondo.

Negli Stati Uniti come in Italia, oggi la metà dei primi 30 podcast in classifica è fatta di videopodcast. E sappiamo che i videopodcast vanno bene in Paesi molto diversi tra di loro, dal Brasile alla Germania, dal Messico alle Filippine, passando anche per Regno Unito e Spagna.

Per quanto riguarda l’Italia, tra le realtà che più stanno investendo nei videopodcast c’è One Podcast (gruppo Gedi), che oltre ad avere acquisito videopodcast popolari (tra cui Tintoria, One More Time ed Elisa True Crime) ne ha lanciati alcuni da zero (come Cazzi Nostri e Overparty). Anche Dopcast ha iniziato a puntare sui videopodcast, con titoli quali Mamma Dilettante e De Core, e lo stesso vale per la “podcast creator company” Vois, che produce Tribù e Hey Luca!. E tra i più seguiti ci sono pure videopodcast indipendenti: su tutti, Passa dal BSMT di Gianluca Gazzoli, già conduttore di Radio Deejay.

La popolarità sempre più forte dei videopodcast è evidente anche da come la loro estetica (il set in genere è composto da poltrone, tavolino, microfoni e cuffie, anche se la Gen Z preferisce un ambiente più comodo e rilassato) viene scopiazzata fuori contesto e appiccicata a contenuti che non c’entrano nulla con i videopodcast.

Addirittura, oltreoceano hanno cominciato ad apparire pubblicità in cui gli attori parlano davanti a un microfono fingendo di essere in un podcast, ottenendo così la stessa efficacia di una pubblicità podcast ma a un costo minore.

Pubblicità & promozione

  • A proposito di pubblicità, tra i vantaggi dei videopodcast c’è la possibilità di fare guadagni pubblicitari ulteriori, attingendo non solo al mercato adv audio ma anche a quello video.
  • I videopodcast inoltre si prestano molto bene alla promozione sui social: basta prendere qualche clip a effetto, editarla ad hoc e pubblicarla come Reel Instagram o video breve su TikTok.
  • Rappresentano una tipologia di contenuti che risponde bene a un’esigenza sentita soprattutto dal pubblico dei ventenni, che quando consumano contenuti passano dalla fruizione solo audio (con il video in background) a quella anche video a seconda di dove si trovano e cosa stanno facendo, così da avere la possibilità di vedere la faccia di chi parla. E, in questo modo, il coinvolgimento aumenta.

Spotify alla rincorsa

Per circa un decennio i videopodcast sono stati appannaggio di YouTube. Ma da qualche anno Spotify si è lanciata alla rincorsa.

  • Nel 2020 ha introdotto i videopodcast sulla piattaforma e ha stretto un accordo da 250 milioni di dollari con Joe Rogan per avere il suo videopodcast in esclusiva per tre anni.
  • Nel 2021 ha lanciato il primo videopodcast originale in Italia, New G (talk all’insegna della diversity condotto da cinque ragazzi della Gen Z), e si è accaparrata per tre anni un altro celeberrimo videopodcast, Call Her Daddy di Alex Cooper, che ha pagato 60 milioni di dollari.
Joe Rogan e Alex Cooper, rispettivamente host di The Joe Rogan Experience e Call Her Daddy. Oggi nessuno dei due è più in esclusiva su Spotify. Cooper insieme al compagno Matt Kaplan ha lanciato una società di videopodcast condotti da ragazze della Gen Z chiamata The Unwell Network
  • Nel 2022 ha dato a tutti i creator la possibilità di caricare videopodcast.
  • Nel 2023 ha fatto sapere di avere superato i 100 mila videopodcast sulla piattaforma.
  • Presentando i risultati finanziari di Spotify nel primo trimestre 2024, l’amministratore delegato Daniel Ek ha detto che quest’anno gli utenti vedranno in generale molti più contenuti video.

Nel 2024 i creator hanno già caricato sulla piattaforma oltre mezzo milione di episodi di videopodcast. E il consumo di video su Spotify è cresciuto più velocemente di quello dei contenuti solo audio, con un aumento del tempo trascorso con i contenuti video del 48% rispetto all’anno scorso.

Come mi aveva detto qualche tempo fa Eduardo Alonso, responsabile podcast per il Sud e l’Est Europa di Spotify, aggiungere l’opzione video nell’ottica della società ha significato assicurarsi che gli utenti possano trovare sulla piattaforma qualsiasi tipo di contenuto cerchino.

Edu Alonso: «I videopodcast consentono ai creator di proporre contenuti sia audio sia video e, di conseguenza, di connettersi in modo più significativo con i loro ascoltatori, espandere il numero di spettatori, rendere più profondo il coinvolgimento del pubblico e monetizzare i loro contenuti in nuovi modi. Attraverso l’interazione visiva, i fan possono conoscere ancora meglio i loro conduttori di podcast preferiti e i creator possono connettersi con il loro pubblico in modo molto più profondo».

Nonostante l’introduzione di una serie di nuove funzioni, l’esperienza utente su Spotify continua però a risultare poco intuitiva. E la piattaforma ancora non ha trovato una maniera davvero efficace per facilitare la scoperta di nuovi contenuti.

Il dio algoritmo

È proprio quest’ultimo punto che ha reso YouTube sempre più attrattiva, tanto da essere non solo l’app più usata al mondo ma anche la piattaforma più usata per consumare podcast negli Stati Uniti (in Italia purtroppo nessuna società di ricerca ha ancora fatto studi sui podcast che contemplino l’utilizzo di YouTube).

Non è un caso che da noi Francesco Costa, giornalista esperto di Stati Uniti nonché tra i primissimi ad avere sperimentato i podcast, abbia lanciato un canale YouTube.

L’algoritmo di raccomandazione di YouTube è probabilmente il punto più forte della piattaforma.

I videopodcast peraltro rispondono bene alla spinta algoritmica di YouTube verso i video lunghi. Il motivo è banale: più il video è lungo più l’utente rimane nella piattaforma, e più pubblicità si becca.

Non a caso, da qualche tempo l’interesse di YouTube per i (video)podcast è aumentato. Non solo ha facilitato la loro pubblicazione, introducendo la possibilità di caricarli tramite feed Rss, ma ha anche aggiunto funzionalità che li rendono più facili da riprodurre e scoprire.

Il dio algoritmo rappresenta un altro motivo centrale per cui sempre più podcaster distribuiscono i loro podcast (anche) su YouTube. Da un recente sondaggio condotto negli Usa sappiamo che lo fanno oltre i due terzi.

Investire su YouTube

Attenzione però. Solo una parte (minoritaria) dei podcast caricati su YouTube sono videopodcast veri e propri: la fetta più grande è composta da classici podcast audio corredati di un’immagine statica o un audiogramma.

C’è da tenere a mente che, anche qualora si producano contenuti adatti a essere realizzati come videopodcast (monologhi/conversazioni/interviste), c’è un enorme tema di costi: il set e l’attrezzatura necessari per creare un videopodcast decente richiedono un investimento che pochi possono permettersi.

Tra questi pochi rientrano per lo più le società di produzione già strutturate. Come racconta un articolo del New York Times, negli Usa hanno iniziato a investire sui videopodcast realtà come Exactly Right Media (che produce, per esempio, My Favorite Murder) e Crooked Media (lo studio dietro a Pod Save America), il cui pubblico però ancora oggi è composto per circa l’80% da audio e per il 20% da video («speriamo che i fan che scoprono i podcast di Crooked Media su YouTube diventino anche abbonati audio»).

Sia Exactly Right Media sia Crooked Media producono soprattutto podcast talk. I podcast narrativi invece finora hanno faticato a sfondare su YouTube, dove in genere vengono proposti con un’immagine di copertina statica. Gli episodi di Radiolab, tra i più popolari podcast narrativi negli Stati Uniti, su YouTube ottengono in media appena 5.000 visualizzazioni.

Da qualche tempo alcune società che producono podcast narrativi hanno però iniziato ad azzardare approcci più ambiziosi dal punto di vista visivo. Come riporta il NYT, Project Brazen (società che produce contenuti giornalistici, tra cui podcast) ha speso circa 100.000 dollari per costruire uno studio video interno.

A detta della società, un approccio al video che preveda la realizzazione di videoclip in stile documentario costa tra il 2% e il 20% in più rispetto al solo audio. Questo nel caso di una serie limitata, il cui budget tipico è pari a 250 mila dollari.
Un aumento dei costi giustificato dalla previsione di entrate pubblicitarie aggiuntive: in base alle stime riportate della casa di produzione di podcast Goat Rodeo, rispetto a una pubblicità solo audio un annuncio host read anche video potrebbe generare un ulteriore 60% di entrate.

C’è però da tenere in considerazione che, a fronte di un CPM (ossia la cifra che si guadagna ogni mille ascolti/visualizzazioni) ancora più basso di quello dell’audio, per fare soldi con YouTube bisogna ottenere decine di migliaia di visualizzazioni per ogni contenuto, e soprattutto bisogna produrre a ritmi molto sostenuti: è l’unico modo per rimanere competitivi in un mondo già saturo. Se per qualcuno i podcast prodotti sono “troppi”, i contenuti su YouTube infatti sono molti, molti di più. E rispondono a logiche di viralità talvolta incomprensibili e spietate.

Spotify ospita circa 5 milioni di podcast e ha 615 milioni di utenti, YouTube ospita circa 114 milioni di canali (in generale) e ha circa 2,5 miliardi di utenti. Quindi nel caso di Spotify abbiamo un rapporto di 1:100 (un podcast ogni 100 utenti) e nel caso di YouTube uno di 4,5:100 (4,5 canali ogni 100 utenti).

Non è tutto oro quel che luccica

Se da una parte YouTube può dare una bella spinta al mondo dei podcast, facendoli scoprire a nuovi pubblici, dall’altra il suo crescente protagonismo rappresenta alcuni rischi.

🐑 ATTENZIONE AI RECINTI 🐑

Uno è quello che ha descritto bene Matt Medeiros in un articolo dove spiega perché convertire il proprio podcast in un canale YouTube significa recintare i propri contenuti e andare in direzione opposta a quella di libertà di movimento attraverso l’intero universo di Internet resa possibile dal feed Rss.

Puntare tutto su una piattaforma vuole dire anche essere in balia dei cambiamenti di strategia di quella piattaforma.

Ricordi quando Mark Zuckerberg aveva giurato che i video sarebbero stati il futuro di Facebook, salvo poi cambiare bruscamente rotta quando si è accorto che non stava funzionando?

🎭 LA TRAPPOLA DELL’OMOLOGAZIONE 🎭

Un altro punto importante lo ha sollevato Nick Hilton in un pezzo intitolato La YouTubification è in arrivo per tutti i media. La tesi è, in sostanza, che questa tendenza dei podcaster a stare dietro a YouTube rischia di snaturare i podcast. Ha portato come esempio due storie.

La prima riguarda Rooster Teeth, società che produce vari media, tra cui podcast. Dal 2022 faceva parte della Warner Bros, che qualche settimana fa aveva deciso di chiuderla. A salvare Rooster Teeth è intervenuta però Night, agenzia di talenti che segue soprattutto importanti youtuber, tra cui Mr Beast.

Gus, Gavin e Barbara di Rooster Teeth Podcast. Il videopodcast ha esordito nel 2008

La seconda storia riguarda l’imprenditore Steven Bartlett, conduttore del popolarissimo videopodcast The Diary of a CEO. Bartlett ha appena fondato Flight Media, società che produce una serie di videopodcast conversazionali dedicati ciascuno a un tema specifico. Secondo Hilton, l’approccio di Bartlett è di gran lunga più vicino a quello di uno youtuber che a quello di un podcaster, con uno schema che prevede un unico account YouTube a cui sono collegati canali multipli segmentati in base all’audience su cui si vuole puntare. Canali costruiti in partenza per attirare un certo tipo di pubblico, quindi, prima ancora che contenuti nati per l’urgenza di dire o far emergere cose specifiche.

Steven Bartlett e alcuni fondatori/talent di Flight Media

Oltre l’estetica

Nel suo ultimo numero della newsletter Hot Pod Ariel Shapiro ha scritto:

«Mentre molti altri tipi di media si incrociano con i podcast (i video su YouTube, gli audiolibri, i video su X), il “podcast” oggi sembra essere più un’estetica che un formato. Il che aumenta il potenziale di scala, e scala significa soldi e posti di lavoro. Ma spero (e sono sinceramente fiduciosa) che il podcasting non perda i suoi elementi distintivi».

Non posso che unirmi all’augurio. E aggiungere: bene usare YouTube, occhio invece a non farsi usare da YouTube (e da nessun’altra piattaforma).

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