“Qui si fa l’Italia”: il podcast come mezzo per costruire la memoria collettiva

Il delitto Moro. La strage di Piazza Fontana. La figura di Bettino Craxi. La Resistenza. Gli anni di piombo.

La prima volta che ho sentito parlare di questi argomenti non è stato a scuola. Mi ricordo che da adolescente, nei lunghi viaggi in macchina durante le vacanze, mi piaceva chiedere ai miei genitori di raccontarmi come fosse stato vivere quegli anni, quale fosse l’atmosfera che si respirava, com’erano (o sembravano) diversi il paese e la nostra città. Le risposte che ricevevo intrecciavano date e fatti di cronaca con osservazioni su come questo o quell’evento avesse avuto un impatto sulla nostra famiglia, o su persone che conoscevano. Dallo zio che andava a nascondersi in montagna coi partigiani quando arrivavano i tedeschi in città, ai compagni di liceo che dal movimento studentesco si diceva fossero passati alla lotta armata.

Forse il fatto che la mia prima esposizione a eventi così fondativi della nostra repubblica sia stata tramite racconti orali è il motivo per cui Qui si fa l’Italia mi ha catturato immediatamente. Parlo del podcast di Lorenzo Pregliasco e Lorenzo Baravalle, che il 27 agosto ha inaugurato la terza stagione.

Mentre il titolo è un riferimento alla frase attribuita a Garibaldi durante una battaglia contro l’esercito borbonico, il sottotitolo che lo accompagna ha funzione di manifesto programmatico: «I momenti che hanno fatto la storia del nostro Paese raccontati a chi, come noi, non li ha vissuti».

Prima del lancio della nuova stagione, ho avuto modo di intervistare i due creatori del podcast. L’intervista completa è stata registrata e può essere ascoltata nel podcast feed di Questioni d’orecchio, disponibile sulle principali piattaforme gratuite.

Lorenzo Baravalle (sx) e Lorenzo Pregliasco (dx) durante un incontro a CUBO Unipol (ottobre 2022)

Le origini di Qui si fa l’Italia

La nostra chiacchierata inizia proprio dalle origini del podcast. Lorenzo Baravalle mi racconta che l’idea gli è venuta sul divano, occupato durante i giorni della primissima quarantena nella primavera del 2020. Stava leggendo un libro di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, che in una lunga parte parla del rapporto di Piccolo con Enrico Berlinguer. Ed è lì che ha iniziato a pensare: «Tutti noi sappiamo chi è Enrico Berlinguer. Ma poi alla fine abbiamo mai sentito la voce di Enrico Berlinguer? Che cosa pensava Enrico Berlinguer? Che cosa voleva fare Enrico Berlinguer?».
Con la voglia di approfondire l’argomento, è arrivata anche quella di divulgarlo. Continua Baravalle: «Ho subito scritto a Lorenzo, con cui siamo amici ormai da più di dieci anni e insieme abbiamo costruito questa idea di Qui si fa l’Italia, cioè l’idea di raccontare dei momenti che hanno segnato un prima e un dopo nella cultura italiana. E non solo raccontarli dal punto di vista della storia politica, ma farci entrare anche dentro il contesto, ossia in che momento della storia sono successe determinate cose».

L’approccio da storici e l’uso attento delle fonti non si applica solo alla scrittura del podcast, ma anche alla nostra intervista. Lorenzo Pregliasco va a ripescare su Whatsapp il messaggio ricevuto dall’amico il 22 maggio 2020, e me lo legge testualmente: «Ho pensato, sarebbe bello creare un format in cui raccontare i grandi avvenimenti della politica italiana. In 20-30 minuti». A stare nei 20-30 minuti per episodio non ce l’hanno mai fatta, però l’essenza di quello che sarebbe diventato Qui si fa l’Italia già era condensata in quel messaggio.

Il passaggio da Spotify Original a podcast indipendente

Da quella prima conversazione a oggi molte cose sono cambiate, a partire dal panorama italiano dei podcast. Il progetto, nato e prodotto come Spotify Original per due stagioni uscite rispettivamente a giugno 2021 e 2022, si è trasformato in produzione indipendente con la terza stagione. Dopo l’uscita di Spotify dalla scena, il progetto oggi è economicamente sostenibile grazie al supporto di NordVPN (angelo custode di diversi podcast e canali YouTube, da Tintoria a Scottecs).

Un’altra cosa che è cambiata nel corso delle stagioni di Qui si fa l’Italia è il format. Si è passati da otto puntate per stagione, in media sui 40 minuti ciascuna, pubblicate una volta a settimana per otto settimane di seguito, a una struttura che si può definire alla Indagini di Stefano Nazzi: una storia più lunga divisa in due puntate, per un totale di circa un’ora, in uscita una volta al mese. «Più che per motivi commerciali o di marketing dei podcast, è stato più un ragionamento di fattibilità per noi», mi ha spiegato Pregliasco, per cui «avere un’uscita concentrata onestamente non era fattibile».

Per nessuno dei due c’era infatti la possibilità di dedicarsi a Qui si fa l’Italia a tempo pieno. Si tratta di un progetto in cui i due investono parecchio tempo e moltissima passione, ma i loro “lavori veri” sono altri. Pregliasco è il cofondatore e redattore capo di YouTrend, progetto di data journalism dell’istituto di ricerche Quorum incentrato su sondaggi e trend sociali, economici e politici. Mentre Baravalle è il cofondatore e CEO di MDPtech, società tecnologica che si dedica alla progettazione di sistemi elettronici innovativi.

Il processo creativo a quattro mani

Lavorare a quattro mani può essere complicato, soprattutto quando si lavora tra amici. Ma dietro a Qui si fa l’Italia sembra esserci un buon equilibrio tra il pragmatismo dell’uno (Baravalle) e la precisione tendente al perfezionismo dell’altro (Pregliasco). Chiedo di raccontarmi i punti di forza l’uno dell’altro. Il primo a rispondermi è Baravalle: «Una delle cose più preziose che Lorenzo [Pregliasco] mi ha insegnato in questi tanti anni di lavoro insieme, oltre che di amicizia, è proprio il suo perfezionismo, il suo non essere mai soddisfatto, il voler sempre andare un metro più in là. È uno dei segreti della qualità di Qui si fa l’Italia». «Lollo [Baravalle] è invece maestro di pragmatismo e di concretezza», dice Pregliasco. «Non so se la cuneesità in questo lo aiuta, ma è una sorta di Mister Wolf [di Pulp Fiction] che arriva alla fine e chiude, risolve, lima, aggiusta le cose di fondo. Io sicuramente mi perdo un po’ nei dettagli».

Benché siano loro i creatori e le voci narranti del podcast, i due Lorenzo ci tengono però a precisare che non sono i soli a lavorare alle puntate. Per questa terza stagione, il team di autori è composto anche da Francesco Magni, Alessandro Negri e Giulia Arduino, oltre al fonico di studio Emilio Sartorio e il sound designer Stefano Tumiati.

Il lavoro di squadra è necessario anche perché nella scrittura e nel linguaggio di Qui si fa l’Italia nulla è lasciato al caso: l’obiettivo a cui tendono è quello dell’accessibilità e della freschezza, da sostituire agli approcci documentaristici più tradizionali. L’ispirazione principale in questo senso viene dallo stile di Francesco Costa in Da Costa a Costa. Mi racconta Baravalle: «Per noi quel podcast è sempre stato un grande riferimento, non tanto dal punto di vista musicale o narrativo, ma proprio dal punto di vista del linguaggio utilizzato, della forma».

Raccontare la Prima Repubblica a chi non c’era

Questa strategia comunicativa incentrata sulla freschezza e sull’immediatezza si collega anche al manifesto programmatico: parlare a persone giovani che non necessariamente conoscono i fatti narrati. Sebbene non manchino gli over cinquanta che vogliono confrontare le vicende raccontate nel podcast coi loro ricordi di gioventù, la maggior parte degli ascoltatori di Qui si fa l’Italia appartiene alla fascia tra i 20 e i 35 anni.

Un’altra fascia di pubblico a cui Pregliasco e Baravalle hanno avuto l’occasione di rivolgersi direttamente nel corso degli ultimi tre anni è quello degli studenti di scuola superiore. Mi raccontano che alcune delle domande più interessanti sono arrivate proprio durante gli incontri con ragazzi e ragazze di quarta e quinta superiore. Nel corso della nostra chiacchierata ci tengono a invitare professori interessati a iniziative simili a contattarli: «Davvero, tendiamo a non dire mai di no a delle scuole».

Lorenzo Pregliasco (sx) e Lorenzo Baravalle (dx) durante un incontro con gli studenti dell’ITIS Alessandro Artom di Asti (marzo 2023)

Che si tratti di liceali o di ventenni, raccontare la storia del nostro Paese a chi non l’ha vissuta porta con sé delle responsabilità. In alcuni casi si tratta di dipingere un quadro su una tela bianca dove i pregiudizi e i preconcetti sono ancora pochi, e su cui si può avere moltissima influenza. «Ci sono tante storie che noi raccontiamo che hanno un elemento anche di tragicità, con drammi di persone in carne e ossa», mi dice Pregliasco. «Nel raccontarli a un pubblico contemporaneo, secondo me non devi mai perdere questo aspetto non solo di rispetto, ma anche di consapevolezza che stai facendo un’operazione delicata. Perché stai raccontando un pezzo della nostra identità collettiva e di come si è formata a qualcuno che probabilmente non ha già di per sé una conoscenza del periodo che racconti. Quindi è una fiducia reciproca quella che si richiede». Per Baravalle questa responsabilità diventa anche uno sprone morale verso l’obiettività e l’onestà intellettuale: «Sentiamo questa responsabilità, almeno per quanto mi riguarda, in primis come la responsabilità di fare qualcosa di bello. E non intendo solo qualcosa che intrattenga, ma che sia giusto». Lo sforzo continuo è quello di attenersi il più possibile ai fatti, dando a chi ascolta un resoconto affidabile di ciò che è accaduto in momenti importanti e spesso tragici del ‘900 italiano.

Proprio per raggiungere questo obiettivo, gli episodi di Qui si fa l’Italia richiedono un lungo lavoro di studio, scrittura e fact-checking. Alla domanda su quanto tempo serva per produrre una puntata, la risposta è lapidaria: «Non lo vogliamo sapere».

La resa del contesto tramite le fonti audio

La ricerca degli inserti audio, usati strategicamente sia per esporre i fatti sia per contestualizzarli con atmosfere sonore specifiche, richiede molto tempo. In alcuni casi, ci sono spezzoni imprescindibili che non sarebbe possibile tralasciare, come Corrado alla radio che nel 1945 annuncia «La guerra è finita!». O la chiamata dei brigatisti che avrebbe portato al ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani nel 1978. Ma tanti altri inserti sono scelti principalmente per la loro capacità di evocare in modo immediato il contesto in cui si sono svolti i fatti. Commenta Pregliasco: «Per noi il contesto ha sempre contato tanto, sia perché aiuta a dare un taglio nuovo [alla narrazione], sia perché – soprattutto nella forma audio – aiuta più di qualsiasi altra cosa a calare chi ascolta dentro l’ambiente della storia raccontata».

Alla domanda se queste fonti audio vengano selezionate prima, durante o dopo la scrittura degli episodi, emerge nuovamente un approccio abbastanza diverso tra i due autori. Pregliasco, mentre prepara la puntata, riesce solitamente a lavorare in parallelo sulle fonti audio. E se ne trova una che funziona la aggiunge già nel momento della scrittura, servendosene come aggancio per l’inizio della frase successiva. Baravalle invece preferisce dedicarsi alla scelta degli inserti in un secondo momento, tagliando delle parti di script se c’è a disposizione un audio che racconta le stesse cose in modo più immediato.

***

In chiusura chiedo ai due Lorenzo se, negli ultimi quattro anni di lavoro sul podcast, abbiano scoperto qualcosa che li ha sorpresi riguardo alla storia d’Italia. «Come italiani siamo molto migliori di quello che ci dipingiamo», mi dice Baravalle, aggiungendo che Qui si fa l’Italia l’ha aiutato mettere in prospettiva il presentismo odierno. Si sente spesso dire che «“Siamo nel momento più terribile della storia dell’umanità”, ma forse vivere negli anni ‘70 a Milano con un morto o comunque un gambizzato al giorno non doveva essere proprio allegro…». Pregliasco invece dice di stupirsi sempre di come, in una certa fase della nostra storia nazionale, la politica fosse una parte imprescindibile dell’identità di tante persone. Una passione e un fermento che hanno portato anche agli eccessi e alle violenze degli anni ‘60, ‘70 e ’80, ma che resta «qualcosa che affascina sempre, e forse è un po’ un filo conduttore di Qui si fa l’Italia».

Tramandare le storie che definiscono l’identità collettiva di una comunità attraverso il suono e la voce è una pratica antica, radicata nella tradizione. Dal mio punto di vista, parte del successo di Qui si fa l’Italia – che è sempre stato presente nella classifica Top 100 di Spotify anche quando erano passati mesi dalla pubblicazione di una nuova puntata – deriva anche da questo: il bisogno di ascoltare storie che ci aiutino a capire come siamo arrivati dove siamo, e magari darci qualche idea su come non ripetere gli stessi errori già commessi in passato.

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