Di Mirko Lagonegro, ceo e cofondatore di Digital MDE
L’articolo di Bloomberg di cui s’è occupata Andrea la scorsa settimana, l’ultima Ellissi del bravo Valerio Bassan sulla creator economy e, soprattutto, le riflessioni di Matt Degan sulla necessità di confrontarsi con quella che ha definito «bolla speculativa del podcasting», mi hanno fatto riflettere sulla situazione italiana a fronte dei continui ingressi di nuovi player nel podcasting italiano: ma c’è davvero spazio per tutti o c’è il rischio che qualcheduno si scotti le dita?
Credo dipenda da come ci si entra, da qual è l’obiettivo della singola scommessa imprenditoriale – ci arrivo tra poco. Prima provo a darvi una dimensione del contesto e, per farlo, tolto il dato Ipsos*, utilizzerò mie stime “largo circa” che servono giusto a darvi l’idea della situazione.
Allora, oggi in Italia abbiamo:
- Numero podcast disponibili in italiano: > 27.000 episodi
- Numero podcast prodotti nel 2021: 9.000 (ho preso i 6000 prodotti fino ad agosto 2021, ho diviso quella cifra per 8 e l’ho moltiplicata per 12)
- Ascoltatori podcast su base mensile: 9.3 milioni*
- Branded podcast prodotti nel 2021: > 100 (sono quelli censiti dal Podcast Committee di OBE)
- Numero di case di produzione che li hanno prodotti: circa 35
È abbastanza chiaro che l’offerta è molto ampia, sia in termini di contenuti da ascoltare che di produttori disponibili a realizzare branded podcast, ma probabilmente oggi è fin superiore alla corrispondente domanda formulata da ascoltatori di podcast e marche interessate a questo formato.
Non credo dipenda solo dal fatto che (ancora c’è chi crede che 🙄) le competenze e gli strumenti necessari a fare un podcast siano alla portata di molti, no. Inizio invece a chiedermi se, ed eventualmente in quale misura, a fianco di aziende che hanno avviato la loro attività su base “industriale” pienamente consapevoli delle specificità del contesto audio, siano entrati o stiano valutando di entrare soggetti mossi da un’attitudine più “speculativa”, dalla legittima volontà di massimizzare un investimento in una logica di puro business, magari pensando di replicare un approccio che nel contesto digital ha spesso prodotto casi di grande e meritato successo.
Perché, così davvero fosse, gli stessi potrebbero scoprire che con l’audio è un po’ diverso, anzi: un bel po’ diverso. In primis perché due keywords tanto amate dagli imprenditori digitali quali scalabilità e replicabilità non si applicano facilmente al podcast: difficile produrre esponenzialmente di più senza impiegare risorse proporzionali, per non parlare del fatto che ogni progetto è un nuovo progetto e quindi altrettanto difficile pensare di replicarne qualcheduno.
Un podcast è un servizio rivolto a chi ascolta – quindi attraente per chi investe, e non viceversa – piuttosto che un prodotto, per non parlare del fattore tempo, di quanto ne occorre per settare perfettamente il contenuto e iniziare a sedimentare un’audience (il motivo per cui gli show di grande successo hanno/devono avere storicità). E non cambia di molto a guardarla in logica editoriale, quella per cui si producono contenuti di alta qualità al fine di monetizzarli grazie alle inserzioni pubblicitarie, ché ancora – e sottolineo ancora – il mercato del digital advertising non è sviluppato al punto di rendere questo business model sostenibile.
Come scrivevo nel mio post sulle previsioni per quest’anno, credo che inizieremo a vedere i primi segnali di una maturazione del settore: alleanze, fusioni, acquisizioni, e – anche se spero proprio di no – qualche polpastrello arrossato. Alla fine, i soggetti che resteranno saranno o quelli che hanno una vocazione di tipo industriale, dei makers capaci di creare valore giorno dopo giorno con metodo e costanza, o quelli dotati di tante risorse economiche, grazie alle quali “comprarsi” il tempo necessario ad attendere l’evoluzione del mercato.
Credendo davvero in un ecosistema sano e articolato, in cui “le balene” ci devono essere, prego solo che ne abbiamo davvero tanti, perché non sarà un processo veloce.
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