A lungo il sogno di ogni podcaster è stato che il proprio podcast venisse comprato da una piattaforma di ascolto (e poi magari diventasse un libro e fosse adattato per la tv). Negli ultimi mesi le mosse di Spotify, culminate a inizio giugno nel licenziamento di altre 200 persone (dopo le 600 licenziate a gennaio) e nella fusione dei due studi di produzione Gimlet e Parcast, hanno reso chiaro che quel sogno – già un tempo così difficile da realizzare da essere incofessabile – è meglio ridimensionarlo, se non accantonarlo.
Una strategia ibrida
Per anni Spotify, nata nel 2006 in Svezia come piattaforma di streaming musicale, per quanto riguarda i podcast ha avuto una strategia ibrida, che combinava un modello alla Netflix con un modello alla YouTube.
Il modello Netflix ha portato la società a
- comprare tre studi di produzione (Gimlet Media e Parcast nel 2019, per un totale di 300 milioni di dollari, e The Ringer nel 2020, per 196 milioni)
- investire su podcast originali e accordi di esclusiva anche molto costosi, come quello con Joe Rogan (200 milioni di dollari) o quello con Alex Cooper di Call Her Daddy (60 milioni di dollari).
L’obiettivo: attrarre iscritti da convertire in abbonati (gli account Premium generano circa il 90% dei ricavi di Spotify).
Un’altra serie di acquisizioni invece si situa sul solco del modello YouTube:
- quella della piattaforma di hosting Anchor nel 2019 per 100 milioni (Anchor è poi stata inglobata in Spotify for Podcasters, lo spazio dedicato ai creator che Spotify ha annunciato a marzo durante la seconda edizione di Stream On insieme a una serie di nuove funzioni)
- nel 2020 quella di Megaphone, piattaforma per pubblicare e monetizzare podcast che Spotify ha comprato per 235 milioni di dollari
- nel 2022 per 87 milioni quella di Podsights e Chartable, piattaforme di misurazione e analisi dei podcast pensate rispettivamente per gli inserzionisti e per gli editori (Spotify ha appena lanciato l’erede di Podsights, Spotify Ad Analytics, soluzione per monitorare l’impatto degli annunci pubblicitari sulle piattaforme di audio digitale: leggi qui per approfondire il significato di questa evoluzione di Podsights).
L’obiettivo di tutte le acquisizioni che rientrano nel modello YouTube, insieme alla spinta sempre più decisa di Spotify sui videopodcast, è quello di attrarre creator e guadagnare dalla vendita di pubblicità all’interno dei loro contenuti.
Il modello vincente
C’è sempre stato un elemento che ha reso il modello Netflix piuttosto debole, per come lo ha applicato Spotify. Ossia, il fatto che gli utenti Premium sono costretti ad ascoltare la pubblicità nei podcast, mentre nel caso della musica tra i vantaggi dell’abbonamento c’è proprio anche quello di evitare le inserzioni pubblicitarie. Spotify, in sostanza, non ha mai creato le condizioni per cui avesse senso abbonarsi alla piattaforma per ascoltare podcast.
E le mosse fatte da Spotify dall’ottobre 2022 ad oggi confermano che tra i due quello che l’azienda stessa considera il modello vincente per rendere i podcast redditizi (cosa che il direttore finanziario Paul Vogel ha previsto che avverrà entro il 2024) è il secondo, il modello YouTube.
Ma di quale mosse sto parlando?
I licenziamenti
Già nell’ottobre del 2022 Spotify aveva licenziato decine di persone che lavoravano a Gimlet e Parcast ed eliminato 11 podcast originali. A inizio 2023 ha poi licenziato 600 dipendenti in vari rami (il 6% della sua forza lavoro) e riorganizzato il management, con l’uscita dall’azienda dell’allora responsabile dei contenuti e della pubblicità nei podcast Dawn Ostroff, giunta a Spotify nel 2018 dopo una lunga carriera nel settore della tv e anima del modello Netflix. A svolgere il ruolo di Ostroff è ora Alex Nörstrom, specializzato nelle attività ad-supported. Nel frattempo altri dirigenti di alto profilo se ne sono andati e gli accordi di podcast in esclusiva con personaggi noti, come i coniugi Obama, sono stati interrotti.
Alla presentazione dei risultati del primo trimestre finanziario 2023 Daniel Ek, ceo e cofondatore di Spotify, ha detto chiaramente che l’azienda avrebbe iniziato a valutare con più attenzione su quali accordi di esclusiva puntare e su quali original investire (pare, per esempio, che il contratto per l’esclusiva del podcast Jemele Hill Is Unbothered non sarà rinnovato dopo la sua scadenza nell’estate 2023). E già da mesi le case di produzione, anche in Italia, stanno rilevando fino a che punto Ek dicesse sul serio: gli investimenti di Spotify su esclusive e original si sono sensibilmente ridotti.
A inizio giugno la società svedese ha annunciato l’ennesima decisione drastica: il licenziamento di altre 200 persone (pari al 2% dei suoi dipendenti) e la fusione tra Parcast e Gimlet in un’unica divisione ribattezzata Spotify Studios (qui c’è un elenco dei dipendenti di Parcast licenziati). Ma che qualcosa non andasse era evidente già prima dell’annuncio, visto che a maggio né Gimlet né Parcast avevano ancora ricevuto i budget per il 2023.
Il “nuovo capitolo”
In una nota inviata al personale Sahar Elhabashi, a capo del dipartimento podcast di Spotify, ha motivato i licenziamenti e la fusione con queste parole:
Stiamo ampliando le partnership con i principali podcaster di tutto il mondo, con un approccio personalizzato per ognuno. […] Negli ultimi mesi, il nostro team dirigenziale ha lavorato a stretto contatto con le Risorse Umane per determinare l’organizzazione ottimale per questo nuovo capitolo. Di conseguenza, abbiamo preso la decisione difficile ma necessaria di riallineare strategicamente il nostro gruppo e di ridurre la nostra divisione podcast globale. […] Il nostro continuo successo nella crescita dell’ecosistema dei podcast si basa sulla necessità che la macchina di Spotify sia sempre in movimento. Con questi cambiamenti, accelereremo verso il prossimo capitolo per i podcast su Spotify, lavorando sulla scoperta e sulle abitudini di ascolto dei podcast per gli utenti, sulla monetizzazione e sulla crescita dell’audience per i creatori, e su un business ad alto margine per Spotify.
La conclusione del comunicato dei sindacati delle due case di produzione mette però in dubbio che le scelte di Spotify rispondano a una strategia chiara. Si legge:
Gimlet e Parcast erano due case di produzione con una visione che ha contribuito a dare forma al settore dei podcast. Mentre bisogna ancora vedere se Spotify una visione ce l’abbia.
La fine di Gimlet e Parcast
Secondo alcuni peraltro le due realtà sono troppo diverse perché abbia senso fonderle in un’unica entità. Gimlet, la casa di produzione dietro a podcast come Heavyweight, Case 63, Homecoming, StartUp, Reply All, Sandra e Stolen (vincitore del premio Pulitzer per il giornalismo audio 2023), è specializzata nelle serie narrative giornalistiche e fiction e nei podcast di interviste, mentre Parcast è nota per i suoi podcast true crime (The Ringer, che non è stata coinvolta nei tagli, invece fa soprattutto podcast di sport).
Con l’acquisizione di Spotify sia Gimlet sia Parcast hanno fatto fatica a replicare i successi del passato, anche perché – a differenza di The Ringer – i loro podcast sono diventati delle esclusive Spotify. Recentemente era emerso che Spotify intendeva iniziare a pubblicare i podcast di Gimlet anche su piattaforme terze.
Altri sono invece convinti che il destino di Gimlet, nello specifico, fosse già stato scritto nel momento in cui i suoi fondatori avevano cercato finanziamenti da venture capitalists (ossia investitori di capitale di rischio), obbligando così la società a fare soldi a ogni costo.
La svolta?
Al di là della questione dei colpevoli del “fallimento” di Gimlet, la strategia di Spotify sui podcast ora appare piuttosto chiara: l’azienda sta riducendo la propria programmazione originale a favore di contenuti più economici da produrre e che generano un maggior numero di ascolti, da monetizzare con la pubblicità. Non a caso Spotify sta promuovendo parecchio tra podcaster e case di produzione i propri strumenti per monetizzare tramite adv, anche su altre piattaforme d’ascolto. E al tempo stesso sta iniziando a pubblicare pure su Apple Podcasts, Spreaker eccetera podcast che prima erano in esclusiva su Spotify. La società, per esempio, è in trattative per rendere Armchair Expert e Anything Goes di Emma Chamberlain disponibili su piattaforme terze, così da attirare più ascoltatori e incrementare le entrate degli show.
Impossibile dire, ad oggi, se la nuova strategia di Spotify (che, con i cinque milioni di podcast che ospita e i suoi 100 milioni di ascoltatori, ossia un utente su cinque della piattaforma, rappresenta il leader del settore in diversi mercati, tra cui l’Italia) funzionerà. Secondo un analista senior di Insider Intelligence, società di ricerche di mercato, la spinta di Spotify sui creator è positiva per gli inserzionisti, nella misura in cui l’inventario su cui fare pubblicità si amplierà e avrà un prezzo ridotto rispetto alle super produzioni alla Gimlet.
Di certo sulla monetizzazione tramite adv Spotify deve vedersela con competitor di alto livello quali Spreaker, Amazon e Acast. Inoltre, difficilmente la pubblicità, da sola, potrà rendere il mercato dei podcast sostenibile: sebbene gli investimenti pubblicitari sui podcast da parte degli inserzionisti siano in forte crescita da anni, rappresentano ancora cifre esigue in confronto ad altri media.
E se è vero che l’epoca delle mega acquisizioni è finita, ciò non significa che le piattaforme hanno smesso di investire sulle produzioni di qualità. Su questo fronte in Italia Rai Play Sound per esempio sta facendo un grandissimo lavoro. E già questa è un’ottima notizia.
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