I podcaster non esistono più

Negli ultimi anni YouTube ha riscritto il concetto di podcast, ambito in cui fino a poco tempo fa nessuno era più forte di Spotify. Non è più così, almeno non negli Usa, dove ora l’app più usata per consumare i podcast è YouTube.

Spotify però non sembra avere intenzione di stare a guardare passivamente. E infatti si è messa a fare concorrenza a YouTube nel campo in cui la piattaforma è più forte di qualunque altra: i video. O, più precisamente, i videopodcast, che per come sono intesi oggi non sono altro che canali di streaming video in cui varie persone chiacchierano tra loro, ciascuna con un microfono ben in vista.

A distanza di qualche mese dalla fine della battaglia legale per il controllo di “Muschio selvaggio”, Fedez ha lanciato insieme a Mr Marra un nuovo videopodcast di interviste: “Pulp Podcast”. Durante un’intervista nel podcast “Gurulundia” Fedez ha detto che oggi “Muschio selvaggio” sarebbe potuto valere tra i 30 e i 40 milioni di euro (chissà su che pianeta vive Fedez)

Quindi, che cosa si è inventata questa volta Spotify per competere con YouTube?

La nuova era di Spotify

A metà novembre, davanti a una platea di centinaia di creator, Spotify ha tenuto nei suoi studios di Los Angeles un giga evento intitolato “Now Playing”. Sono state annunciate due novità importanti.

  1. I creator che rispettano determinati requisiti (leggi: quelli più popolari) potranno guadagnare non solo dalla pubblicità, ma anche in base al consumo dei loro contenuti video da parte degli utenti Premium. In entrambi i casi dovranno passare dal nuovo Spotify Partner Programme.
  2. Gli utenti Premium avranno la possibilità di guardare i videopodcast senza pubblicità.

Entrambe le novità si concretizzeranno nel 2025 e, per il momento, solo in alcuni Paesi anglosassoni, ossia Usa, UK, Australia e Canada.

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Dopo questo annuncio sono usciti un sacco di articoli che hanno a che fare con le nuove mosse di Spotify sul fronte dei videopodcast, ma anche sul ruolo di YouTube in questo ambito e sui videopodcast in generale. Riassumo qui un po’ di cose che sono emerse, insieme a qualche dato.

Innanzitutto, da dove spuntano questi videopodcast?

I videopodcast esistono da un sacco di anni. Basti pensare che The Joe Rogan Experience, il podcast e videopodcast più popolare al mondo, esiste dalla vigilia di Natale del 2009 (15 anni fa!!!). E la componente video c’era sin dagli inizi. Al principio JRE andava in onda su una piattaforma streaming chiamata Ustream, oggi di proprietà di IBM. L’approdo su YouTube è avvenuto nel 2013.

Intanto The Joe Rogan Experience si è riconfermato il podcast più ascoltato su Spotify a livello globale per il quinto anno consecutivo, seguito da Call Her Daddy di Alex Cooper in seconda posizione e Huberman Lab di Andrew Huberman in terza. Tutti e tre sono videopodcast.

Un fatto curioso è che negli anni intorno al 2010 in Francia il termine “podcast” era usato per riferirsi ai canali YouTube di stand-up comedian & Co. Lo racconta un paper pubblicato nel 2022:

«Nel 2010 i podcasteurs erano i comici che parlavano direttamente alla telecamera e pubblicavano brevi sketch su YouTube. […] Questo significato è stato sostituito solo quando i “podcast veri e propri” sono cresciuti di popolarità in Francia e la notorietà di questi YouTuber è diminuita. […] Siamo noi a scegliere cosa è e cosa sarà un podcast».

💡 Su quest’ultima punto aggiungo la visione di Tom Webster (super esperto del mercato dell’audio), secondo cui la definizione di “podcast” deve evolversi insieme al pubblico e alle piattaforme che lo ospitano, senza limitarsi a un particolare formato tecnico.

E davvero i videopodcast sono così popolari? Perché?

Sì, i videopodcast sono più popolari che mai, non solo su YouTube ma anche su Spotify. Nell’ultimo anno il numero di persone che consumano videopodcast su Spotify è cresciuto dell’88%. Oltre 250 milioni di utenti hanno guardato almeno uno degli oltre 300.000 videopodcast disponibili sulla piattaforma.

Daniel Ek ha ammesso candidamente che se cinque anni fa qualcuno gli avesse detto che le persone avrebbero voluto vedere gente che parla seduta davanti a un microfono non ci avrebbe creduto. (Nemmeno io.)

Tra ottobre 2022 e agosto 2024 negli Usa la percentuale di adulti che preferisce il consumo di podcast con video è aumentata di 10 punti percentuali, passando dal 32% al 42%.

💡 Tra le principali ragioni per cui i videopodcast sono così popolari ci sono il fatto che la componente video rende più facile concentrarsi sui contenuti e il desiderio di vedere le espressioni facciali di conduttori e ospiti.

Ma il mercato non è già saturo?

Sotto certi aspetti, di sicuro sì. Un’altissima percentuale di videopodcast è composta da contenuti talk o da interviste. Quanti contenuti di questo tipo hai già intercettato? Io una marea. E non mi sembra di essere l’unica.

Di recente Tim Ferriss, che ha un’ormai storico podcast d’interviste, ha smesso per quattro mesi di produrre nuovi episodi per ragionare su come innovare il suo progetto. Aveva infatti la sensazione che il format fosse diventato ormai troppo ripetitivo e prevedibile.

Molti podcaster stanno esplorando alternative alle interviste, anche perché trovare e gestire ospiti interessanti è impegnativo. E poi perché gli ascoltatori tendono a preferire voci familiari; e allora tanto vale farsi affiancare da co-conduttori regolari o prediligere i monologhi.

🤔 In ogni caso, i podcast talk e i podcast monologo sono i più facili e, in genere, economici da produrre. Proprio per questo ormai ce ne sono una valanga, e distinguersi tra la massa non è affatto semplice.

Qual é il ruolo di YouTube?

Non solo è la piattaforma di contenuti video in generale e di videopodcast in particolare più usata al mondo: anche la piattaforma più usata per il consumo di podcast audio.

Non è un caso.

Dopo che i podcast durante la pandemia di Covid-19 sono diventati di moda, YouTube ha iniziato a investire nel settore per posizionarsi tra i leader del mercato. Per esempio, ha aggiunto i podcast su YouTube Music e ha introdotto la possibilità di caricarli su YouTube tramite feed Rss.

Un recente studio sul consumo di podcast negli Usa ha rivelato che la maggior parte degli ascoltatori preferisce ancora consumare contenuti solo audio: solo il 14% dei consumatori di podcast *guarda* oltre i tre quarti dei podcast che consuma. Eppure, il 39% del totale dei consumatori di podcast usa YouTube.

Rispetto alle altre piattaforme YouTube si distingue soprattutto su due fronti:

  1. discoverability: il suo algoritmo permette di scoprire facilmente sempre nuovi contenuti in linea con i gusti dell’utente, alimentando così la fruizione continua;
  2. engagement: la componente video fa sì che molti utenti rimangano parecchio tempo nella piattaforma.

💡 Un elemento interessante che emerge dalla ricerca è che, a livello demografico, tra chi consuma soprattutto podcast video e chi consuma soprattutto podcast solo audio non c’è praticamente differenza.

Ovviamente ci sono molti altri aspetti che determinano la popolarità di YouTube. La possibilità che YouTube dà di fare community attraverso un’efficacissima sezione commenti, per esempio. Oppure il vantaggio di avere già una componente video nel momento in cui bisogna andare a creare contenuti promozionali per Instagram e TikTok. E anche, ovviamente, la facilità di utilizzo.

Tutto ciò fa sì che i contenuti su YouTube riescano a ottenere un gran numero di visualizzazioni. E molte visualizzazioni vuol dire molti guadagni.

Ecco, parliamo di soldi.

Ed entriamo nel merito delle novità di Spotify.

Fino ad oggi sia su YouTube sia su Spotify il modo principale che i creator avevano per monetizzare era la pubblicità. Posto che il mercato stabilisce che si guadagnano X euro ogni 1.000 visualizzazioni/ascolti di un’inserzione pubblicitaria (è il cosiddetto CPM, costo per mille impressioni), più views/ascolti si fanno più il guadagno aumenta.

Ora Spotify vuole cambiare strategia.

Il co-presidente di Spotify Gustav Söderström (foto di Presley Ann/Getty Images per Spotify)

Secondo Spotify, la scelta di puntare sugli abbonamenti riflette i suoi punti di forza. Il copresidente della società Gustav Söderström ha spiegato che Spotify è molto più grande di YouTube come piattaforma su abbonamento. E quindi – ha detto lui – è logico per Spotify basare la propria strategia su questo vantaggio, così come YouTube si basa sulla sua forza nella pubblicità (anche se YouTube Premium prevede un meccanismo praticamente uguale a quello introdotto da Spotify → più gli abbonati guardano il tuo contenuto più guadagni).

YouTube riconosce alla maggior parte dei creatori di video una quota del 55% dei ricavi degli annunci pubblicitari venduti per i loro contenuti. Spotify stima che un programma che raggiunge da 1 a 2 milioni di visualizzazioni in un mese guadagnerebbe circa 50.000 dollari con il suo nuovo modello.

D’altra parte, la novità di Spotify mette davanti in difficoltà molti network di podcast e molti podcaster, abituati a guadagnare proprio dalla pubblicità.

Perché la pubblicità nei podcast è così importante per i podcaster?

Come ha spiegato Ashley Carman, gli annunci dinamici (ossia quel tipo di slot pubblicitari che possono essere riempiti con annunci diversi in base alla domanda degli inserzionisti e al target) sono fondamentali per l’industria dei podcast. La loro adozione su larga scala ha aiutato il settore a crescere, perché inserire dinamicamente gli annunci significa che un singolo slot pubblicitario può essere riproposto più e più volte.

Tutti gli accordi milionari degli ultimi anni nel mondo dei podcast si sono basati principalmente proprio sul calcolo del numero di impressioni medie dei vari podcast moltiplicato per il costo per 1.000 impressioni (il CPM).

E allora perché Spotify vuole che i podcaster rinuncino alla pubblicità?

Söderström ha detto che la decisione di esplorare una strada alternativa alla pubblicità nasce dal fatto che sempre più ascoltatori sembrano patire il moltiplicarsi delle pubblicità nei podcast. (Anche se i creator potranno comunque registrare pubblicità “baked-in” all’interno del loro podcast.)

E uno dei motivi per cui gli utenti decidono di passare alla versione a pagamento dell’app – che è poi il principale obiettivo di Spotify: avere più utenti Premium possibile – è la possibilità di avere contenuti senza interruzioni pubblicitarie.

Ma davvero la gente si abbonerà alla piattaforma per consumare i videopodcast senza pubblicità?
E davvero il numero di utenti che decideranno di passare al piano Premium sarà tale da permettere a Spotify di compensare i creator per le mancate entrate pubblicitarie?

Ancora peraltro non è chiaro in che modo e in che misura i creator/podcaster saranno compensati per il consumo dei loro contenuti video da parte degli utenti Premium.

Il mio sospetto è che queste ultime novità di Spotify saranno poco dirompenti. E di sicuro non faranno la differenza per la stragrande maggioranza dei podcaster/creator, quelli non abbastanza grandi da poter aderire al nuovo Spotify Partner Programme.

In tutto ciò, i podcaster esistono ancora?

Mi sembra che la crescita dei videopodcast stia creando una distinzione sempre più evidente tra la figura del podcaster e quella del creator. Dove il podcaster ha un ruolo più indipendente dalle piattaforme e crea contenuti in cui spesso emergono la sperimentazione e la drammaturgia audio, e il creator crea soprattutto contenuti che rispondono alle logiche e alle esigenze delle varie piattaforme, e che quindi sono – almeno in teoria – più facilmente monetizzabili.

Spotify, evidentemente, è sempre più interessata ai creator anziché ai podcaster.

Lo dimostra anche un piccolo, grande cambio terminologico delle ultime settimane: la piattaforma per gestire e promuovere podcast e videopodcast, che fino a poco tempo fa si chiamava Spotify for Podcasters, è stata ribattezzata Spotify for Creators.

L’importante, per chi crea contenuti, è rimanere vigili: l’esperienza ci insegna che diventare troppo dipendenti dalle logiche delle piattaforme non è mai un bene.

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