Cosa succede ad un film se sottraiamo l’elemento fondamentale delle immagini in movimento? Ci troviamo in un interregno tra video e suono indagato da artistɜ, scrittorɜ e registɜ fin dagli albori del cinema sonoro.
Ciao, io sono Giulia Mengozzi e faccio parte di ALMARE, un collettivo che si occupa di pratiche contemporanee che utilizzano il suono come mezzo espressivo: ALMARE lavora a cavallo tra pratiche artistiche e curatoriali, tramite scrittura, ricerca collettiva, produzione sonora e musicale, organizzazione di concerti, performance lecture, talk e mostre. Ci occupiamo anche di podcast (ad esempio, menziono la collaborazione per Antennae di Francesca Berardi, Raiplaysound), di cui siamo ascoltatorɜ voraci. Oggi, però, non sono qui per suggerirti una serie che potresti facilmente reperire sulle maggiori piattaforme di podcasting, ma per invitarti ad esplorare una diversa modalità di ascolto. Oggi, si va al cinema.
Il cosiddetto imageless cinema è una sorta di genere ibrido, un interregno sfocato tra visione e ascolto. Scrivo “cosiddetto” e “una sorta” perché non stiamo parlando di un genere effettivamente codificato, di cui possiamo individuare specifici tratti distintivi e ricorrenti, più o meno intrinseci e volontariamente riscontrabili nelle intenzioni dell’autorǝ. Si tratta piuttosto di un insieme spurio di episodi, una storia di sperimentazioni diverse che è possibile ricostruire a ritroso. Lɜ registɜ e lɜ artistɜ che si possono iscrivere a questa storia sono numerosɜ. Per menzionarne alcunɜ, si può addirittura tornare indietro alle origini del cinema sonoro – che risalgono a The Jazz Singer, film prodotto dalla Warner Bros nel 1927.
Già nel 1930 troviamo Weekend di Walter Ruttmann, un’opera per la radio che sfrutta in maniera innovativa e pioneristica le possibilità espressive offerte dall’introduzione della colonna sonora nelle nuove pellicole cinematografiche. All’inizio degli anni ‘80, Marguerite Duras ha incluso lunghe sequenze di schermo nero nel suo L’homme atlantique. Nel 1993, il film Blue di Derek Jarman, in cui le voci narranti sono seguite su un’unica ripresa monocromatica blue Klein, porta questa linea di ricerca ad una delle sue manifestazioni più rilevanti. Ma potremmo nominare anche Stan Brakhage, Guy Debord, Bradley Eros, Hollis Frampton, Takahiko Iimura, Margaret Honda, Louise Lawler, Maurice Lemaître, George Maciunas, João César Monteiro, Yoko Ono, Nam June Paik, Jeff Perkins, Luther Price, Paul Sharits, Michael Snow e moltɜ altrɜ autorɜ che hanno abbracciato quelle che il critico Justin Remes ha definito antiretinal aesthetics.
Non avendo né l’ambizione né le competenze per ricostruire una precisa genealogia dell’imageless cinema, mi limiterò a condividere una selezione arbitraria di film che mi hanno particolarmente colpita. Prima di procedere, a chiunque volesse approfondire il tema vale la pena di segnalare il programma 2022 dell’Anthology Film Archives di New York, che ha dedicato una ricca retrospettiva all’imageless cinema, dividendola in quattro parti: Structuring Absence, Emptiness as Image, Scratch Films e Audioscapes.
L’interesse di ALMARE nei confronti dell’imageless cinema è confluito nella programmazione della terza edizione di Sound Quests, il nostro appuntamento annuale dedicato alle narrazioni sonore e alle pratiche di world-building. Il 18 novembre 2023 ALMARE, in collaborazione con PAYNOMINDTOUS, invita tuttɜ alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino per riflettere sull’assenza di immagini. La serata si apre con la proiezione di Blue (1993) di Derek Jarman e prosegue con una performance dell’artista libanese Jessika Khazrik, per chiudersi con i dj set di Federico Chiari e della dj portoghese Ecstasya (i biglietti sono qui). E ora, procediamo con alcuni dei miei esempi preferiti di imageless cinema.
Blue, Derek Jarman, 1993
Per 75 minuti lo schermo si riempie di blu Klein, mentre le voci di Jarman, Tilda Swinton, Nigel Terry e John Quentin, insieme a suoni e musica, creano un paesaggio sonoro che dà corpo a ciò che non può essere visto. Al centro del discorso c’è l’esperienza corporea di una malattia ormai completamente debilitante: Jarman scomparirà nel 1994, vittima della pandemia globale di AIDS e della stigmatizzazione delle persone affette. Proprio a causa delle complicanze della malattia, Jarman aveva perso quasi completamente la vista ed era in grado di distinguere soltanto alcune tonalità di blu.
Come scrive Alison Young, nonostante il radicale livello di astrazione Blue non abdica alla propria vocazione narrativa: una narrazione di piacere, di rabbia, di dolore. Blue è stato presentato per la prima volta alla Biennale Arte di Venezia del 1993; il paragrafo che segue è tratto dalla cartella stampa ufficiale della Biennale.
«Blue di Derek Jarman è un’esperienza unica e affascinante. Essendo un film privo di immagini, con una colonna sonora che si staglia su uno schermo blu inalterato, sconvolge immediatamente le nostre aspettative su ciò che il cinema è, o meglio dovrebbe essere. È ancora più strano che sia opera di un regista diventato sinonimo del potere dell’immagine. […] Eppure in Blue [Jarman] ha scelto di dimenticare questo regno per quello che sembrerebbe un esperimento d’avanguardia radicale: ha scartato la moltitudine di possibilità offerte dall’immagine per uno schermo blu, una tela nera. Jarman, ispirato dal lavoro e dalle idee del pittore francese Yves Klein, desiderava da tempo realizzare un film monocromatico interamente in blu. Ne parlava sicuramente già nel 1987, prima dell’uscita di The Last of England […]. Tuttavia, gli eventi che si sarebbero verificati nella sua vita, in particolare la contrazione del virus dell’HIV e il conseguente effetto sulla sua salute, sulla sua vita e sul suo lavoro, hanno profondamente trasformato lo slancio e il significato personale del progetto Blue».
Blue oggi fa parte delle collezioni di MoMA, Tate, Centre Georges Pompidou, Walker Art Institute e George Eastman House e sarà acquisito dal LACMA / AMPAS.
L’Homme Atlantique, Marguerite Duras, 1981
Probabilmente conosci la prolifica attività di scrittrice di Marguerite Duras e l’associ al cinema per via della splendida sceneggiatura di Hiroshima Mon Amour, che le vale la candidatura agli Oscar nel 1961, nonché della partecipazione alle riprese del film (diretto da Jean-Jacques Annaud) tratto dal suo romanzo L’amante. Duras stessa dirige numerosi film, tra cui L’Homme Atlantique. Questo cortometraggio del 1981 non è completamente privo di immagini, ma la peculiarità della dimensione sonora fa sì che lo si possa includere in questa lista.
Il tema dell’assenza che ricorre nel film è rispecchiato dalla mancanza di immagini delle lunghe sequenze in cui la colonna sonora si giustappone ad un campo nero: su 42 minuti di filmato, 30 sono privi di immagini, intervallati da sporadiche apparizioni di alcune riprese del film Agatha et les lectures illimitées, girate da Duras soltanto qualche settimana prima.
Branca de Neve, João César Monteiro, 2000
Nei primi anni del ‘900, lo scrittore svizzero Robert Walser scrive dei brevi drammi teatrali nei quali riprende la narrazione di alcune fiabe laddove i fratelli Grimm avevano deciso di interromperle. Troviamo, ad esempio, una Rosaspina (La Bella Addormentata) che, anziché accogliere il bacio del principe azzurro, si lamenta di essere stata svegliata, insieme a tutti gli abitanti del castello, mentre dormiva beatamente. «Biancaneve, una delle figure più profonde della poesia moderna» commenterà lo scrittore Walter Benjamin, «basterebbe a spiegare come mai questo poeta […] sia stato uno degli autori prediletti dell’inesorabile Franz Kafka». Anche Biancaneve non rimane particolarmente colpita dal principe che l’ha svegliata e preferirebbe di gran lunga tornare dai suoi nani.
Un secolo dopo, la Biancaneve di Walser viene ripresa dal regista portoghese João César Monteiro. Il film viene presentato a Venezia (stavolta alla Biennale Cinema) nel 2000, nella sezione “Nuovi territori”; la colonna sonora è affidata ai compositori Heinz Holliger e Salvatore Sciarrino. In Portogallo, Branca de Neve è fonte di un’accesa polemica scatenata dal fatto che lo stato avesse stanziato un sostanziale contributo pubblico per un film a schermo nero. Ad onor del vero, c’è qualche sporadica immagine: all’inizio del film vediamo il corpo dello stesso Walser quando, il giorno di Natale del 1956, viene ritrovato morto nella neve, poi nuvole e infine il regista che guarda in camera e indica agli spettatori che il film è terminato – ma questo dobbiamo limitarci ad intuirlo, perché, rovesciando le prospettive, l’onnipresente colonna sonora si interrompe prima del finale.
Expedition Content, Ernst Karel & Veronika Kusumaryati, 2020
L’ultimo film che consiglio è uno splendido lavoro di etnografia sonora, frutto della collaborazione tra l’artista Ernst Karel e l’antropologa Veronika Kusumaryati, che lavora in Papua Occidentale ed è affiliata al Sensory Ethnography Lab di Harvard. Expedition Content si basa su un ampio corpo di registrazioni audio realizzate nell’ambito della Spedizione Harvard-Peabody, organizzata nel 1961 dal regista Robert Gardner nei territori dell’odierna Papua Occidentale. Allora la regione è controllata dal governo coloniale olandese, che finanzia la spedizione unitamente ad imponenti donazioni private. Alla spedizione partecipano alcuni cittadini statunitensi molto facoltosi, che partono muniti di cineprese, macchine fotografiche, registratori a bobina e un microfono. Tra questi, c’è il giovane erede della Standard Oil Michael Rockefeller, che realizza i documenti sonori dai quali prende le mosse il film. Mentre Rockefeller naviga insieme all’antropologo René Wassing verso il villaggio di Ostjanep, il catamarano su cui viaggiano viene capovolto da un’onda. L’antropologo olandese rimane aggrappato alla barca e successivamente soccorso; Rockefeller invece tenta di raggiungere a nuoto fino la riva, finendo inghiottito dalle acque. Il giornalista Carl Hoffman, nel libro Savage Harvest, sostiene che Rockefeller non sia annegato, bensì fatto prigioniero e cannibalizzato dagli indigeni come vendetta verso i colonialisti olandesi che alcuni anni prima aveva ucciso cinque guerrieri di Ostjanep.
L’unica sequenza di immagini che vediamo nel film è una scena del film Dead Birds, realizzato da Robert Gardner nel 1963 e girato nel corso della stessa spedizione. Expedition Content ci invita a riflettere sulle dinamiche di potere che inevitabilmente intercorrono tra l’antropologia e i suoi soggetti di studio, nonché sugli strumenti che hanno contribuito alla costruzione dello sguardo etnocentrico (tra i quali il cinema rientra a pieno titolo) che ancora influenza la nostra percezione dei popoli non occidentali.
* * *
La lista potrebbe proseguire a lungo, ma direi che per il momento hai una selezione di materiali piuttosto densi dai quali può prendere il via il tuo viaggio nel cinema senza immagini.
Leave a Reply